Considerazioni sul proverbio
Il proverbio e la donna
di Gino Carbonaro
La lettura delle sentenze proverbiali
porta chiunque a fare delle considerazioni
sul ruolo che il proverbio ha avuto
nelle società passate; ed è ovvio che possano sorgere
degli interrogativi su come o su quando è nato
il proverbio, sotto quale forma si presenta,
che cosa lo distingue da formulazioni logiche similari e, infine, com’è stato percepito
o considerato nel corso dei secoli.
Per rispondere alle domande che ci siamo poste, il sistema più ovvio ci è sembrato quello di chiederlo direttamente al proverbio. Vediamo cosa ci risponde:
’I mutti su’ vanćeli‿’i missa,
Muttu anticu è vanćelu nicu,
Mutti antichi, vanćeli níchi,
I mutti siciliani su’ pêzzi‿’i vanćeli,
dove è detto, che il motto (o proverbio) equivale a un pezzo di vangelo, dunque ad una verità totale, integrale, assoluta. Difatti, dice un’altra sentenza,
Nuň è `múttu si nuň è `tuttu,
Nun ši dici múttu si nuň è `parti o tuttu.
o, almeno, se non conterrà una parte di verità. Ma sentiamo ancora cosa dice appresso:
Lu muttu anticu lu modu ni ʼnšigna,
Lu muttu anticu currēggi la vita,
Lu mutti di l’antichi mai ti ’nganna,
Lu mutti di l’antichi ’n pó fallìri,
Li pruverbi su’ `tutti pruvāti.
Dal rilevamento delle costanti dei proverbi riportati, riscontriamo che per ben sei volte è presente l’aggettivo antico; il che ci induce a credere che il proverbio, che intende essere tale, deve aver superato la prova del tempo: deve essere così antico da sembrare quasi nato all’atto della creazione, e il cui ricordo si perde nella notte dei tempi. Si tratta, in altre parole, di un’antichità dilatata, che coincide con l’eternità, o, se vogliamo, con l’Eterno che è Dio, e quindi con la Verità, che è il Verbo. E, come parola del Verbo, viene intesa la sentenza proverbiale, così come lascia trasparire l’etimo della parola pro-verbum, che potrebbe significare “verità che si usa al posto del Verbo”, o se vogliamo, che integra altre verità riconosciute come tali.
Nelle undici sentenze riportate è ancora specificato, che il motto è degli “antichi”; come dire che esso fa parte del popolo, anzi, ne è la sua voce corale, e lo dicevano i latini: Vox populi, vox Dei. L’equazione è sempre la stessa: il proverbio è creatura, patrimonio del popolo, e voce di Dio ad un tempo, tramandato dagli anziani, ai quali ne è affidata la custodia, e che lo consegnano (anzi, lo consegnavano) ai giovani, sempre dosandone l’uso ed evitandone l’abuso.
Caratteristiche del proverbio sono la sua infallibilità (’u muttu di l’antichi ’n-pó fallìri), la certezza che non può ingannare (lu muttu di l’antichi mai ti ’nganna), la sua componente etica (lu muttu anticu curreggi la vita); ed infine, la sua finalità pedagogica (lu muttu anticu lu modu ni ’nšigna). Ultima fra le proprietà del motto è quella che lo vuole provato e sperimentato (li pruverbi su’ `tutti pruvati): senza il collaudo e la verifica verrebbe meno la garanzia su quella che è l’essenza stessa del proverbio, che è il suo essere portatore di verità e di saggezza. Questo è quanto ci dice il Motto, parlando di se stesso.
Anche Aristotele, che scrisse un libro sui proverbi, li ritenne frammenti di una antica saggezza-sapienza che è poi la sophìa (sojίa). Plutarco, invece, li considera misteri sacri, per mezzo dei quali si manifesta la volontà divina. Ma è vero che ancora oggi il proverbio si presenta sotto forma di messaggio magico-sacrale, avvolto in un alone di mistero, al quale si collega una forte carica evocativa e suggestiva, tale da sembrare dettato da una entità divina.
La stessa considerazione vale per i Latini, che dal proverbium sentivano promanare quell’horror, che era peculiare alle cose sacre: dall’horror sacer al tabù il passo è breve. Per questo, a nessuno è dato metterne in dubbio la sacralità e la veridicità (evidentemente per timore di mali terribili ed oscuri, che potrebbero da ciò derivare). Così, qualora il proverbio dovesse perdere la credibilità, allora lo si “iberna”, facendolo morire in modo indolore: insomma, non viene più usato, e pertanto va obsoleto.
È chiaro che il proverbio è protetto dal mana, che si manifesta nel senso di rispetto e di venerazione, che da sempre accompagna tutto ciò che ha prerogative di sacralità. Ed è in virtù del suo mana, che il proverbio viene accettato da tutti come verità dogmatica, della quale a nessuno è dato chiedere il perché.
Formalmente, la forza intrinseca del Proverbio va ricercata nella struttura, cioè nell’uso di parole rimate e assonanti. Il proverbio: Cu’ havi dinari e amiçizia si teni ’nŧŗa lu culu la `giuştizia, presenta i termini “amicizia” e “giustizia” in rima assonante e com-baciante, che è quella che suggerisce una sottintesa e inequivocabile affinità fra le parole (nomen omen), e subito dopo, fra i concetti di cui le parole sono portatrici. Dalla similarità assonante dei termini si passa per simpatia all’idea del tutto implicita di rapporto, complicità e connivenza, fino a rilevare l’identità totale fra i due concetti. Diventa, così, facile, anzi logico, per il fruitore del proverbio, ritenere che amicizia ha qualcosa in comune con “giustizia” (primo livello); anzi, l’amicizia inquina la giustizia (secondo livello): e il denaro che accompagna l’amicizia fa da trait-d’union, da mediatore, quasi da mezzano e catalizzatore fra i due concetti.
Altra peculiarità del proverbio è quella di presentarsi sotto forma di messaggio oracolare: incrocio atipico di poesia e di saggezza ad un tempo. Difatti, per l’uso del linguaggio figurato e metaforico, il proverbio è portatore di messaggi sovrapposti a più livelli: dove il primo livello è dato dal senso letterale, mentre il secondo livello è costituito dal senso traslato. Rileggiamo il motto che dice: A li poviri e a li şvinturati `ci çhiovi ’nŧŗa lu culu anchi assittati; in esso appare chiara la sovrapposizione del piano letterale e di quello metaforico: la pioggia che penetra nelle pieghe più riposte della carne, anche quando si crede di essere difesi (primo livello), simboleggia le disgrazie che provano gli “sventurati”: la pioggia-sventura dalla quale non ci si può riparare: l’impossibile che pure è possibile. Il Proverbio registra tutta l’amarezza di chi non riesce a parare i colpi avversi della Sorte.
Piano metaforico o traslato, che per la sua natura ermetica e la profondità del contenuto, chiama in causa la religione e la filosofia (ovviamente, non quella sistematica), in quanto entrambe hanno come obiettivo il raggiungimento della saggezza-sapienza (sophìa), la sola che può garantire la verità: verità, rac-colta, quasi rubata all’aria, per essere imprigionata e custodita dal proverbio, che in seguito la consegna all’uomo sotto forma di consiglio, di avvertimento, e a volte, con finalità consolatoria.
Se è connaturato al proverbio quel senso che per i Latini era horror sacer, che ne protegge la credibilità, è vero che una analisi orientata in questa direzione, può condurre il ricercatore a considerazioni opposte a quelle suggerite dal proverbio, pervenendo a risultati che potrebbero mettere in dubbio la credibilità della sentenza proverbiale, se non altro per quel che riguarda il suo essere ritenuto portatore di verità “universali”.
Possiamo affermare, invece, che nei proverbi si riflette ed è custodito il patrimonio culturale di un popolo, e, più specificamente, tutto ciò che in una cultura è considerato valido, socialmente approvato, e quindi “vero e giusto”. Un proverbio siciliano, che Pitré fa risalire al secolo xvii, recita:
Cu’ voli `beni a `fímmina maritàta,
’a sô vita ći l’hāvi ’mpriştāta.
Quanto recita questo proverbio era vicino alla verità nella Sicilia di qualche secolo (o di qualche decennio) fa, ma non potrà essere considerato vero in assoluto e per sempre. Se ne deduce che, nel trasformarsi della cultura il proverbio non è più attendibile, e pertanto non è (o non sarà) capace di garantire la verità nel tempo. Ma, è qui che sta il problema: se il proverbio ha perduto la sua corrispondenza al vero, è però indiscutibile che quel concetto esprimeva il modo di credere della gente di un tempo.
Difatti, ritornando al passato (remoto o prossimo che sia) della Sicilia, era vero che il marito tradito, per un sincronico rapporto di causa ed effetto, diventava “cornuto”; acquisendo una qualifica onoraria, recepita (chissà perché, poi) da tutti i Siciliani (di una volta!) come un disonore. In forza di questo nuovo e non ambìto status sociale, le sanzioni del gruppo non si lasciavano attendere per il malcapitato, e andavano dalla denunzia pubblica (chíđdu è-ni curnūtu!), alla emarginazione silenziosa (lássŭlu fúttiri! ’n-ci dari cunfidenza!) alla condanna ad opera di tribunali speciali.
La successiva reintegrazione dell’individuo all’interno del gruppo, poneva come condizione unica (sorta di fàida) la eliminazione violenta dell’odiato rivale; ancor meglio, però, se fra gli ingredienti del cocktail fosse stata aggiunta qualche goccia di sangue muliebre. Scherzi a parte, si era davanti a un rito che aveva tutti i connotati del sacrificio; difatti, era sempre il sangue l’unico detersivo capace di lavare la macchia del terribile affronto. Ma, è perciò stesso dimostrato, che il proverbio riportato è prodotto da una cultura e in un periodo storico (il secolo xvii, per l’appunto) che di questi è l’espressione.
Ne discende che alle sentenze proverbiali possiamo rivolgerci per capire come ragionava la gente per rilevare la qualità della cultura, che nel caso in questione è - si è detto - fortemente manichea (e di conseguenza, maschilista), in quanto si registra in essa il permanere di schemi dualistici peculiari di tutte le società primitive: esistenza, cioè, di mondi contrari e contrapposti, coppie di concetti-entità-archetipi speculari e diametralmente opposti, come bene-male, destra-sinistra, maschio-femmina, cui vanno collegati altri concetti speculari come attivo-passivo, positivo-negativo, alto-basso, dominante-dominato, cielo-terra, e quindi nobiltà-plebe, sacro-profano, divino-demoniaco, vita-morte; entità polarizzate, che si attraggono e si respingono, ma che non devono perdere mai la loro sostanziale identità. In forza di questi principi speculari l’universo, il mondo, la società, la famiglia risultano spaccati in due, divisi da una linea invisibile, che pone da una parte la Destra, il Bene, il Maschio, ciò che è divino-sacro-nobile-solare-fortunato-attivo-fattivo-produttivo-creativo-stabile; e dall’altra parte la Sinistra - e gli eventi sinistri ad essa connessi - il Male, la Femmina, e ancora, ciò che è passivo-profano-demonìaco-sfortunato-improduttivo-inetto-parassitario-plebeo-mutevole. Schemi che i proverbi riflettono. Basti ricordare il motto che recita:
’U máşculu è `mèli, ’a fímmina è `fēli,
nel quale è possibile estrapolare i significati impliciti nel messaggio, dove il maschio è percettivamente associato al miele dolce e dorato, e l’oro è colore solare tipico delle divinità, di chi è luce, di chi detiene il potere, il giusto, la verità, la destra, che dona il miele, che nutre e rallegra e addolcisce la vita. Mentre la femmina richiama il fiele, risaputamente amaro e repulsivo, dal colore verdognolo, che è il colore del vomito, della suppurazione, della putrefazione e della morte. Concetto sinistro, quest’ultimo, che le culture del mondo hanno adattato alla donna e al suo ruolo, ritenuto secondario, passivo, socialmente improduttivo, parassitario, che avvelena la vita e la intossica.
Ed è da questo forte archetipo-collettivo, rilevato in questo proverbio, che scaturiscono anche i mastodontici lapsus collettivi, sempre riscontrabili nella proverbialità e nei modi di dire. Perché ai novelli sposi si augura ogni bene, e fra tutti i beni, si augurano figli-maschi (auguri e `fíġğhi-máşculi!) mentre tutti ci guardiamo bene dall’augurare figlie-femmine? Ci si chiede, se è l’inconscio a determinare certe scelte, oppure un esplicito dettato culturale, quello che rileviamo nel proverbio che recita:
Mala nuttata è a fíġğhia fímmina,
o, anche,
nel senso che la figlia-femmina, già da quand’era nel ventre materno, era pesante da portare, come il piombo, e pertanto non è da augurare a nessuno! Queste sono le parole del proverbio, che riflettono archetipi dell’inconscio collettivo.
Ma, vediamo come si definisce l’immagine dell’uomo e quella della donna in altre massime. A proposito dell’uomo è detto che:
Ogni `beni di l’ômu veni,
L’ômu è comu l’oru, sempri luçi,
mentre sul fronte della donna recita:
Di lu mari nasci lu sali
e `đi la fimmina‿ogni `māli;
e ancora
’A fímmina teni quatŧŗu `bannèri:
càrzara, malatìa, furca‿e `galēri.
Questo è quello che afferma il proverbio, che “non può sbagliare”. Lungo i secoli, e nel susseguirsi e sovrapporsi delle varie culture, la donna è stata violentata più volte, non solo fisicamente; e nulla è più pericoloso di un bombardamento di messaggi espliciti ed impliciti, il più delle volte subliminali, che arrivano codificati sotto forma di massime, proverbi, motti, che hanno da dire qualcosa sul suo conto.
Violenza terribile e mistificatoria, se si pensa che la donna è stata costretta da sempre a vedere se stessa riflessa nelle immagini, che le sono state recapitate dall'esterno, costituite da modelli approvati e filtrati da una cultura spietatamente maschilista. Messaggi che lungo i secoli hanno contribuito al suo condizionamento culturale. Idee e concetti pericolosi, quanto più sono stati presentati con l’autorità sacrale e coercitiva, che è propria della massima proverbiale.
Per il tramite dei proverbi, difatti, la donna ha definito la propria identità; grazie a loro ha saputo che lei è, potrebbe essere, anzi “deve” essere volubile, diabolica, vuota, perché “lo dice il proverbio”, che ’a fímmina è pampina di canna … ’a fímmina ha setti şpiriti com’ê jatti … ’a fímmina è `com’â jađdina, si perdi si `ŧŗoppu camina; ’a fímmina `ridi i quannu vò e `çhianci quannu pó; e pertanto imparerà sul serio, se le fa comodo, a piangere e sghignazzare, e si sentirà tanto più donna quanto più farà l’oca. E la trappola è bell’e costruita. Perché, proprio per questo, la donna si ritroverà sempre più prigioniera di mille catene e di mille pregiudizi; difatti sa bene che non dovrà essere troppo alta, né troppo bassa, né grassa, né bella; né, una volta sposata, dovrà dire “ho fame” al marito; né quando è nubile (şchétta) dovrà farsi vedere per strada da sola, perché rischierà molto: soprattutto le terribili sanzioni sociali e fra queste, quella di non potersi sposare.
Qui tocchiamo altre dolenti note. Difatti, è proprio questa la lezione che lei ha imparato meglio di tutte, e sin da piccola: il fatto che la cosa più importante nella vita di una donna è il matrimonio, perché anche questo recita il proverbio:
Di li fímmini lu papatu
e saprà pure che il marito non deve essere bello, né buono e comprensivo, e che dovrà concedersi al primo uomo che gli presenta il destino, o il sensale; e su questo argomento sempre il proverbio (cioè, la vox populi) sanziona:
Píġğhia l’omu quannu fēti,
chi quannu fa `ciàuru nun voli a `tia.
Ligna virdi‿ e mariti tinti
Mêġğhiu avilli ca pirdìlli.
Dal che si evince che l’uomo, anche se violento ed egoista, ha sempre un suo intrinseco non-estimabile valore. Avere un marito è meglio di non avere marito.
Sotto questo profilo, il proverbio si configura come strumento di trasmissione di messaggi culturali codificati e strutturati in un sistema di norme, di valori, di usi, di costumi, che agiscono a tutti i livelli su chi li riceve: da quello cosciente a quello inconscio, fungendo da veri e propri mediatori e condizionatori culturali nella mente di chi tali messaggi riceve e ritrasmette.
Va da sé che una rilettura dei testi proverbiali sotto il profilo antropologico e semiologico, innesca un processo dissacratorio, irreversibile, che squarciando il velo di Maja, che da sempre ha protetto la massima proverbiale, disintegra il tabù e il mana che lo proteggevano dall’attacco dissacratorio della logica. È a questo punto che il proverbio, come avviene già per la mitologia, potrà interessare lo storico, l’antropologo e la psicologia, oltre che la linguistica, in senso lato.
Noi abbiamo rivisitato i proverbi sotto il profilo storico-antropologico e abbiamo scoperto che in ognuno di loro è codificata la cultura siciliana arcaica, che non ha cessato ancora di essere operativa. Abbiamo inventariato, analizzato centinaia di proverbi. Dalla loro interpretazione è nato questo libro.
Gino Carbonaro